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Il Re e il suo giullare (Margaret George)

WILL SOMERS
A CATERINA CAREY KNOLLYS

Kent, Inghilterra, 10 aprile 1557

Mia cara Caterina,
sto morendo. O più esattamente sto per morire...c'è una lieve differenza, anche se non è così consolante. Eccola: chi sta per morire non può scrivere lettere, mentre coloro che stanno per morire possono farlo e a volte lo fanno. Come dimostra questa lettera... Carissima Caterina, risparmiatemi le vostre proteste. Non mi vedete da molti anni: da quanto tempo siete andata in esilio a Basilea? Oggi non mi riconoscereste più. Non sono sicuro di riconoscermi io stesso, quando commetto l'impudenza di guardarmi in uno speccio, a dimostrazione che la vanità è longeva quanto noi.  E' la prima facoltà che compare e l'ultima ad andarserne. E io, che mi guadagnavo da vivera a corte burlandomi della vanità altrui, mi guardo allo specchio come tutti gli altri. E vedo un vecchio sconosciuto dall'aspetto sgradevole.
Ma avevo già venticinque anni quando il vecchio Harry (che allora era giovane anche lui) mi prese al suo seguito. Ormai è morto da dieci anni, ed è di questo che scrivo. Veniamo subito in argomento. Sapete che non sono mai stato sentimentale. (Credo che Harry lo apprezzasse perché lui era invece d'un sentimentalismo incorreggibile). Ho una piccola eredità da darvi. Da parte di vostro padre. Lo conoscevo piuttosto bene, meglio di voi. Era un uomo magnifico e oggi tutti sentono la sua mancanza...persino i suoi nemici, credo.
Io vivo tranquillo in campagna, nel Kent. E' abbastanza lontano da Londra per proteggere dalle false accuse, ma non tanto che non vi giungano le false accuse rivolte ad altri. Vi sono stati roghi a Smithfield, e come avrete probabilmente saputo anche voi, Cranmer e Ridley e Latimer sono morti bruciati. Maria doveva avere odiato molto Cranmer per tutti questi anni! Pensate a tutte le volte che dovette stargli accanto in qualche cerimonia religiosa...come in occasione del battesimo di Edoardo, quando le fecero addirittura portare i doni. Caro Cranmer... l'arrendevole ecclesiastico di Enrico. Se c'era qualcuno che sembrava un improbabile candicato al martirio, era lui. Avevo sempre creduto che non avesse coscienza.  Mi rendo conto di aver sbagliato. Avrete sentito dire che dapprima  ha ritrattato il suo protestantesimo, in modo tipico, e poi, straordinariamente, ha ritrattato la ritrattazione! Sarebbe stato comico, se non fosse stato invece terribile.

tratto da
  IL RE E IL SUO GIULLARE
(L'autobiografia di Enrico VIII annotata dal buffone di corte Will Somes )
di Margaret George

Richard Feynman : GENIO

Niente è sicuro. Questo messaggio di speranza venne inviato ad un sanatorio di Albuquerque dal mondo segreto di Los Alamos. La nostra è una vita fatata.
In seguito, i demoni avrebbero tormentato gli ideatori della bomba. J. Robert Oppenheimer parlò a lungo della sua anima ottenebrata, ed altri fisici iniziarono ad avvertire un forte disagio per aver rimesso nelle mani dell'umanità il potere di autodistruggersi. Richard Feynman, più giovane e oberato da minori responsabilità, pativa un dolore di natura più privata. Egli sentiva di possedere un tipo di conoscenza che lo estraniava dal resto del mondo. Soffriva all'idea che la gente comune conducesse la propria vita quotidiana completamente ignara dell'apocalisse nucleare che la scienza aveva riservato loro. Perché progettare e costruire strade e ponti destinati a durare un secolo? Se solo essi avessero saputo ciò che lui sapeva,non se ne sarebbero certo curati tanto. La guerra era finita, si apriva una nuova era della scienza, e lui stava male. Per un pò non riuscì quasi a lavorare. Di giorno era un giovane ed eccitabile professore della Cornell University, di notte un giovane assetato d'amore che passava dalle serate fra matricole ( in cui le ragazze sgattaiolavano via da questo ballerino dinoccolato che andava dicendo di essere uno scienziato e di aver costruito la bomba atomica) a bar e bordelli. Nel frattempo, i nuovi colleghi, giovani fisici e matematici della stessa età che lo vedevano per la prima volta, ne ricavavano subito un'impressione ben precisa : "mezzo genio e mezzo pagliaccio", come Freeman Dyson, egli stesso un prodigio in erba, aveva scritto ai suoi genitori in Inghilterra. Dyson restò molto impressionato da questo americano chiassoso, suadente e traboccante di energia. Gli ci volle un pò per capre con quale ossessività il suo nuovo amico procedesse verso il cuore stesso della scienza moderna.

tratto da GENIO, La vita e la scienza di Richard Feynman
di James Gleick

Storia di una capinera

Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristemente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.

Tratto da "Storia di una capinera"
di Giovanni Verga (1840-1922)


Signor Dio, questa è Anna

"La differenza tra un uomo e un angelo è facile. La maggior parte di un angelo è dentro, la maggior parte di un uomo è fuori". Sono le parole di Anna, una bambina di sei anni, chiamata anche Topolino, Frugolino o Gioia. All'età di cinque anni, Anna conosceva perfettamente il fine cui tende ogni essere umano, conosceva il significato di amore ed era un'amica personale e un'assistente del Signor Dio. A sei anni, Anna era una teologa, una matematica, una filosofa, una poetessa e una giardiniera. Se le si faceva una domanda, si riceveva sempre una risposta, a tempo debito. In alcune occasioni, rimandava la risposta per settimane o per mesi; ma alla fine, quando era arrivato il momento giusto per lei, si otteneva la risposta: diretta, semplice e pertinente.
Non raggiunse gli otto anni; morì per un incidente. Morì con un sorriso sul bel visino. Morì dicendo : "Scommetto che il Signor Dio mi lascia entrare in Cielo dopo tutto questo", e anch'io scommetto che l'ha fatto.
Ho trascorso con Anna tre anni e mezzo soltanto. Ci sono persone che pretendono di essere famose per aver circumnavigato il mondo in solitario, o per essere discese sulla luna, o per qualche altro atto di coraggio. Tutto il mondo ha sentito parlare di questa gente. Pochissimi hanno sentito parlare di me, ma anch'io rivendico la fama : perchè ho conosciuto Anna. Per me è stata la più grande avventura. Non si è trattato di una conoscenza casuale; e ha richiesto una dedizione totale. Perchè l'ho conosciuta rispettando le sue condizioni, il modo in cui esigeva di essere conosciuta: cominciando dal di dentro. "la maggior parte di un angelo è dentro", e questo è il modo in cui ho imparato a conoscerla: il mio primo angelo. Da allora ho imparato a conoscere altri due angeli, ma questa è un'altra storia.
Mi chiamo Fynn. Be', non è proprio la verità; il mio vero nome non ha più avuto alcuna importanza da quando gli amici hanno cominciato a chiamarmi Fynn e questo nome mi è rimasto appiccicato.

tratto da "Signor Dio, questa è Anna"
di Fynn

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Devo purtroppo fermarmi qui: questo "incipit" durerebbe tanto quanto dura il bellissimo libro di Fynn.
Appena potrò posterò su Ispido Café uno dei bellissimi disegni che rendono questo libro non solo bello da leggersi ma anche bello da vedere.
Uno dei libri che più ho amato: quando l'ho letto la prima volta avevo 18 anni!
Non ho trovato molte notizie di Fynn sul Web: se qualcuno di voi riuscisse a saperne di più non manchi di comunicarmelo, ci conto!

La colomba assassinata


Molti anni fa, proponevamo di definire l'aggressione come la quantità di energia cinetica capace di accelerare la tendenza di un sistema all'entropia, di accelerare il suo livellamento termodinamico, in altre parole, di distruggerne più o meno completamente la struttura. L'uomo ha di fronte a sé degli insiemi e ogni insieme è formato da elementi. tali elementi non stanno a caso all'interno di un insieme, ma secondo relazioni che danno luogo a una "forma" e queste relazioni, questo "modellamento" costituiscono un nuovo insieme: l'insieme delle relazioni, che unisce gli elementi di un insieme e che noi chiamiamo "struttura". L'aggressione dunque tende a perturbare le relazioni esistenti tra gli elementi di un insieme, ad aumentarne il disordine, anzi c'é stato un momento in cui si è voluto vedere un rapporto di uguaglianza tra l'entropia di un sistema e l'ordine che lo costituisce, vale a dire la sua "informazione". Bisogna tuttavia tener presente che, come ha detto Wiener, "l'informazione è solo informazione. Non è né massa né energia". Ne consegue che la formula dell'entropia che esprime un valore termodinamico ( la trasformazione di un'energia potenziale, suscettibile di fornire un certo lavoro, in energia cinetica che non è più capace di fornire lavoro) può avere un rapporto con il grado di ordine di un insieme, ma che questo ordine non è della stessa natura degli elementi energetici o massicci che costituiscono il sistema. Così, la somiglianza tra la formula dell'entropia e quella dell'informazione, a parte il segno contrario (neg-enrtopia), permette di dire soltanto che l'entropia crescente si accompagna a un disordine crescente, cioè a un'informazione decrescente.

tratto da "La colomba assassinata"
di Henri Laborit

Diario di un curato di campagna

La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte. Le parrocchie d'oggi, naturalmente. Lo dicevo ieri al curato di Norenfontes : "Il bene e il male debbono equilibrarsi;senonché, il centro di gravità, è collocato in basso, molto in basso.O, se lo preferite,si sovrappongono l'uno all'altro senza mescolarsi, come due liquidi di diversa intensità". Il curato m'ha riso in faccia. E' un buon prete, affabilissimo, molto paterno, che all'arcivescovado passa addirittura per un ingegno forte, un pò pericoloso. I suoi motti di spirito formano la gioia dei presbitèri, ed egli li sottolinea con uno sguardo che vorrebbe essere vivacissimo e che in fondo io trovo così frusto, così stanco da mettermi voglia di piangere.
La mia parrocchia è divorata dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie! la noia le divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile cancro. Si può vivere molto a lungo con questo in corpo.
L'idea m'è venuta ieri, sulla strada. Cadeva una di quelle piogge sottili che si inghiottono a pieni polmoni e che vi scendono sino al ventre. il villaggio m'è apparso bruscamente dalla parte di saint-Vaast, così ammucchiato, tanto miserabile sotto l'odioso cielo di novembre, L'acqua gli fumava sopra da tutte le parti. sembrava essersi coricato là, nell'erba ruscellante, come una povera bestia stracca. Com'è piccolo, un villaggio! E quel villaggio era la mia parrocchia.

tratto da "Diario di un curato di campagna"
di George Bernanos

Narciso e Boccadoro

Davanti all'arco di ingresso, retto da colonne gemelle, del convento di Mariabronn, sul margine della strada c'era un castagno, un solitario figlio del Sud, che un pellegrino aveva riportato da Roma in tempi lontani, un nobile castagno dal tronco vigoroso; la cerchia de' suoi rami si chinava dolcemente sopra la strada, respirava libera ed ampia nel vento; in primavera, quando intorno tutto era già verde ed anche i noci del monastero mettevano già le loro foglioline rossicce, esso faceva attendere ancora a lungo le sue fronde, poi quando le notti erano più brevi, irradiava di tra il fogliame la sua fioritura esotica, d'un verde bianchiccio  e languido, dal profumo aspro e intenso, pieno di richiami, quasi opprimente; e in ottobre, quando l'altra frutta era già raccolta ed il vino nei tini , lasciava cadere al vento d'autunno i frutti spinosi dalla corona ingiallita: non tutti gli anni maturavano; per essi s'azzuffavano i ragazzi del convento, e il sottopriore Gregorio, oriundo del mezzodì, li arrostiva in camera sul fuoco del camino. Esotico e delicato, il bell'albero faceva stormir la sua chioma sopra l'ingresso del convento, ospite sensibile e facilmente infreddolito, originario d'altra zona, misteriosamente imparentato con le agili colonnette gemelle del portale e con la decorazione in pietra degli archi delle finestre, dei cornicioni e dei pilastri, amato da chi aveva sangue latino nelle vene e guardato con curiosità, come uno straniero, dalla gente del luogo.


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Per me, il più bello degli incipit. Il più grande degli scrittori.

Se questo è un uomo

Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui quattro anni di leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione.
Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a "Giustizia e Libertà". Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l'esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di nascondiglio, di fuoco, di un paio di scarpe.
A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un'altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta.

Tratto da "Se questo è un uomo"
di Primo Levi


Gita al Faro


"Si, naturalmente, se domani sarà bello" disse la signora Ramsay. "Ma dovrai alzarti all'alba" aggiunse.
Per suo figlio quelle parole furono messaggere di una gioia straordinaria, come fosse ormai deciso che la gita avrebbe avuto luogo, che il prodigio atteso con tanta ansia, per anni e anni gli sembrava fosse ora, dopo una notte di oscurità e un giorno di navigazione, a portata di mano. Poiché, già all'età di sei anni, apparteneva a quel numeroso clan che non sa isolare un sentimento dall'altro, ma non può impedire alle prospettive future, con le loro gioie e le loro pene, di distendere una nube su quanto è a portata di mano, poiché per gente di questa natura, sin dalla prima infanzia, ogni rivolgimento della ruota della sensazione ha il potere di cristallizzare e fissare il momento da cui dipendono le tenebre o lo splendore, James Ramsay, seduto sul pavimento a ritagliare le illustrazioni del catalogo dei Magazzini Militari, mentre sua madre parlava, circondò l'immagine di un frigorifero di una gioia celestiale. Era un'immagine ornata di frange, di gioia. La carriola, la tosatrice, lo stormire dei pioppi, foglie che risplendono bianche prima della pioggia, cornacchie che gracchiano, scope che sbattono, abiti che frusciano - tutto era così colorato e ben distinto nella sua mente che già aveva il suo codice privato, il suo linguaggio segreto, sebbene fosse l'incarnazione dell'assoluto rigore che non scende a compromessi, con la fronte e gli intensi occhi azzurri, inesorabilmente sinceri e puri, che si incupivano appena alla vista dell'umana fragilità, così che sua madre, mentre lo osservava muovere con precisione le forbici lungo il contorno del frigorifero, lo immaginò in toga rossa e ermellino sullo scranno del magistrato o alla guida di una grave, fondamentale impresa in una crisi pubblica.


tratto da "Gita al Faro"
di Virginia Stephen Woolf

Lo zen e la via del Karate

More about Lo Zen e la Via del Karate
Un giorno, mentre camminavo alla volta del liceo in un chiaro mattino di primavera, mentre la macchia scura della mia ombra si proiettava sul sentiero sterrato sovrastante i campi di riso, volli sforzarmi di camminare per davvero, di essere presente a ogni passo; ma invano. Questa sensazione di non essere, questo incompiuto tentativo di esistere autenticamente, mi orientarono a una ricerca dell'esistenza di sé attraverso la pratica delle arti marziali. Essi mi ricollegarono così a una tradizione propria della mia cultura e tuttavia obliterata dall'educazione impartita a me e agli altri giovani giapponesi del dopoguerra. Cominciai quindi a fare Karate non come un semplice esercizio fisico, bensì, più profondamente, per assicurare una base alla mia esistenza.
Ero molto attratto da quanto avevo sentito raccontare, da piccolo, a proposito della condizione spirituale raggiunta dagli adepti della sciabola. Vi vedevo un'immagine ideale dell'uomo, conformemente a una concezione cara alla cultura giapponese, secondo cui l'uomo può arrivare al perfezionamento di se stesso attraverso l'approfondimento di una delle arti marziali. Nel Budo (il complesso delle arti marziali giapponesi) a questa condizione (ossia modalità di esistenza nei confronti di se stesso e degli altri) si perviene attraverso la padronanza di alcune tecniche orientate al combattimento all'ultimo sangue.

Kenji Tokitsu
in
Lo Zen e la via del Karate

Lessico famigliare

Nella mia casa paterna, quand'ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: - Non fare malagrazie!
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava : - Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva : - Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
E diceva : - Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una table d'hote in Inghilterra, vi manderebbero subito via.
Aveva , dell'Inghilterra, la più alta stima. trovava che era, nel mondo, il più grande esempio di civiltà.
Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, ''un sempio''. - M'è sembrato un bel sempio, - diceva, commentando qualche sua nuova conoscenza. Oltre ai ''sempi'' c'erano i ''negri''.
"Un negro" era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere.
Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui "una negrigura". - Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! - ci gridava continuamente.

Tratto da "Lessico famigliare", di Natalie Ginzburg

Prologo ad una molto dura ricerca

Il mio nome è Alexander Perchov. Ma tutti i miei amici mi chiamano Alex, perché è una versione del nome più flaccida da pronunciare. Mia madre mi chiama Alexi-basta-di-ammorbarmi perché sempre la ammorbo. Se volete sapere perché sempre l'ammorbo, è perché sempre sono in altri posti con amici, e seminando tanta moneta e eseguendo così tante cose che possono ammorbare mia madre. Mio padre mi chiama Shapka per il cappello di pelliccia che calzavo in testa anche nei mesi d'estate. Poi ha smesso di dirmi così perché gli ho ordinato di smettere di dire così. Mi sembrava un nome bambinoso, e io invece mi sono sempre pensato un uomo molto potente e inseminativo. Ho avuto una baldoria di ragazze, credetemi, e tutte per me hanno un nome differente. Una mi chiama Baby non perché sono bambino, ma perché mi fa le coccole. Un'altra mi chiama Tutta-la-Notte. Volete sapere perché? Ho una ragazza che mi chiama Moneta perché attorno a lei spargo così tanta moneta. Che per questo bacia il terriccio dove metto i piedi. Ho anche un minuscolo fratellino, che mi chiama Alli. Io non sfagiolo troppo questo nome, ma sfagiolo molto lui, e allora okay, gli permetto di darmi il nomuncolo Alli. Ah, il suo nome è Piccolo igor, ma il babbo lo chiama Pasticciotto, perché sta sempre a pasticciare con le cose. Solo quattro giorni sono passati che si è fatto un occhio blu per un pasticcio con il muro di mattoni. Se siete curiosi per il nome della mia cagnetta, è Sammy Davis Junior Junior. Lei porta questo nome perché Sammy David Junior era il cantante preferito del Nonno e la cagnetta è sua, non mia perché non sono io quello che crede che il Nonno è cieco.

da Ogni cosa è illuminata, di Jonathan Safran Foer


Per fare invece la conoscenza di Alex, ecco un passaggio dal film