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N.

Stava seduto al tavolo dello studiolo, di traverso. Sprimacciava con irritazione le carte che il generale Drouot gli aveva passato, il budget del 1815, come se tra quelle si fosse nascosto uno scarabeo o un cerambice, entrato per caso dalla finestra in cerca di tepore. S'è lamentato tra i denti che il costo delle divise era eccessivo. Controllava che il totale delle singole voci fosse giusto, perchè non si fidava nemmeno di Drouot. Non si fidava di nessuno. "Portate le candele", ha detto seccamente. Fuori della Villa dei Mulini la tela del cielo, azzurro chiara, s'era mutata in grigio cenere nel giro di pochi minuti. Il signor Rathéry, il segretario particolare, era passato nella saletta degli ufficiali della guardia a cercare il generale Cambronne. Tra mezz'ora sarebbe venuto il mamelucco Alì ad annunciare la cena.
Sono andato verso il ripiano sotto la finestra della biblioteca, dove avevo appena appoggiato le novità librarie giunte da Livorno, e tra di esse il finto volume sull'estrazione del ferro che in realtà era una scatola. Ho sollevato la copertina come se fosse l'anta di un armadietto. Ho cercato di estrarre la pistola che vi era nascosta con la delicatezza che mi consentiva il tremito delle mani, e ho alzato il cane. Ho stretto la pistola al petto, come fosse una reliquia, e ho spalancato la porta che immette nello studiolo. Allora ho steso il braccio per tutta la sua lunghezza, mirando alla nuca.
Il bastardino che gli stava accucciato accanto s'è rizzato sulle zampte anteriori, ringhiando. L'uomo non si è girato subito, quasi non credesse alle sue orecchie. Poi, senza alzarsi, ha ruotato lentissimamente il tronco, con una gravità un po' teatrale, da antico romano, come forse avrà visto fare dal suo amico Talma, il famoso attore parigino.
Nei suoi occhi non c'era paura.


N.
di Ernesto Ferrero


Rompere le scatole

E' stato l'ultimo libro letto nell'anno passato.
In genere tutti i libri che ho letto mostrano chiarissimi segni di interazione tra me e l'autore.
Se ho motivo di dissentire circa un'affermazione, espungo il periodo o commento a margine del foglio il mio dissentire. Se resto perplesso o m'interrogo circa qualcosa, lascio un bel punto interrogativo a lato ( sai che originalità ...). Se non conosco il significato di una parola la sottolineo con una linea ondulata e a margine ci metto una linea retta di riferimento ...poi si lavorerà di dizionario appena possibile ...
 Insomma, il mio personale codice per la lettura finisce con l'essere una sola cosa con il libro, che pare solcato, quasi arato. Il libro invecchia in qualche maniera. Quei segni sono come rughe, infatti.
Ma non sembra dolersene più di tanto. Pare che dica invece : "Ho vissuto!"

:-)

"Il tempo che vorrei", di Fabio Volo, non ha subito questa sorte in maniera significativa.
Anche il segno a matita è poco evidente, quasi indeciso se rimanerci o meno tra le pagine a farsi memoria, a catturare l'attenzione di futuri altri lettori...
Poi, però, ogni tanto spunta uno scarabocchio, una siglatura, due linee accostate come binari ...

Uno di questi binari ha portato i miei pensieri molto lontano e mi piace condividerlo con voi:

" Hai costruito il tuo mondo con il pensiero di un monolocale e non ti va di buttare giù i muri e farlo diventare un appartamento più grande. Tu hai una scatola con una misura e dalla vita prendi solo quello che sta in quella misura; tutto quello che ti capita di più grande e di più ingombrante lo lasci andare. Semplice. Non ti adatti e non vivi la vita per quello che ti offre, ma è la vita che diventa tale solo quando prende la tua misura. Devi imparare a "rompere le scatole" Pensa a cosa ho detto : non rompi mai le scatole."

Buona giornata
:-)

Il tempo che vorrei

" Sono figlio di un padre mai nato. L'ho capito osservando la sua vita. da che ho memoria non ricordo di aver mai visto il piacere nei suoi occhi: poche soddisfazioni, forse nessuna gioia.
Questo mi ha sempre impedito di godere pienamente della mia, di vita. Come può infatti un figlio vivere la propria se il padre non ha vissuto la sua? Qualcuno ci riesce, ma è comunque faticoso. E' un'officina di sensi di colpa che lavora a pieno ritmo.
Mio padre ha sessantasette anni, è magro e ha i capelli grigi. E' sempre stato un uomo pieno di forza, un lavoratore. Ora però è affaticato, stanco, invecchiato. E' stato deluso dalla vita. Così deluso che quando ne parla spesso si ripete. Vederlo in questa condizione scatena in me un forte senso di protezione. Mi intenerisce, mi dispiacxe, vorrei fare qualcosa per lui, vorrei aiutarlo in qualche modo. E mi sento male perché mi sembra di non fare mai abbastanza, di non essere mai abbastanza.
Spesso, soprattutto negli ultimi anni, lo osservo di nascosto. Lo guardo con attenzione e solitamente finisce che mi commuovo senza una ragione valida, se non per quel groviglio interiore che provo sempre e che mi tiene legato a lui.
Abbiamo avuto una relazione difficile e il nostro è quel tipo di amore che solamente chi ha avuto il coraggio di odiarsi può conoscere. Quell'amore vero, guadagnato, sudato, cercato, lottato.
Per imparare ad amarlo ho dovuto fare il giro del mondo. E più mi allontanavo da lui, più in realtà mi stavo avvicinando. Il mondo è tondo. "
tratto da
Il tempo che vorrei
di
Fabio Volo

Per te un milione di volte, Amir agha

Confesso di aver saputo sempre molto poco di etnie hazara o pashtun.
Ricordo però molto bene quel brutto periodo durante il quale i telegiornali riportavano la minaccia talebana (poi concretizzata purtroppo) di distruggere il complesso millenario dei Buddha di Damiyan.
Pensai "non è possibile che accada!"
Invece accadde e, contrariamente a quanto pensavo, il mondo parve risollevarsi fin troppo presto dal dolore e dallo stupore.

La bellezza non appartiene ad una sola religione, non ha età e non subisce l'incanto di questa o di quella nazionalità.
Se viene offesa, deturpata o rifiutata ... è offesa, deturpata e rifiutata ogni altra bellezza, anche quella che è custodita dentro ciascuno di noi.
Per me è questo che significa "patrimonio dell'Umanità".

Ritenevo allora che i talebani, quegli inquietanti studenti barbuti, con un sol gesto si appropriassero un pò di una bellezza che era parte di noi tutti e che non era assoggettata ad alcuna shari'a, come invece loro affermavano.
Quando poi si ebbe notizia delle continue lapidazioni di donne, della strage degli hazara ...  mi ritrovai a pensare, come era accaduto altre volte, a quanto possa essere madre fin troppo ferace, la religione, nel disseminare di fanatismo la mente umana.

- - -

Alla fine il libro l'ho letto. Prima di quanto sperassi. E, soprattutto, prima di affidarne la lettura a Davide: è stato un bene che io abbia letto il libro assieme a lui. I nostri figli vivono un mondo facilitato e sono ben distanti dalle brutture alle quali la guerra purtroppo costringe i bambini di altre parti del mondo.
Mi sono dunque dovuto improvvisare, in un paio di circostanze, "lieve censore".
In questo mio ruolo forzato ho però fatto di tutto per preservare il senso della storia d'amicizia che lega Amir ed Hassan, "i sultani di Kabul", anche perché altrimenti non si sarebbe potuto cogliere quel dolore, universale, che segna indelebilmente gli amici quando, troppo pavidi per fronteggiare assieme la vita e le sue minacce, scelgono la via facile del tradimento.



I personaggi di questo libro ( Hassan, Amir, Rahim Khan ... Baba ... ) restano impressi nella memoria come il volo degli aquiloni a Kabul, con i loro fili smerigliati e le loro code azzurre. Ed è facile ricordarsi per sempre degli occhi del piccolo Hassan, l''hazara, il "nasopiatto", che scrutano il cielo e sanno, come nessun altro, dove vanno a finire gli aquiloni quando smettono di volare.




Il cacciatore di aquiloni, di Khaled Hosseini

" Sono diventato la persona che sono oggi all'età di dodici anni, in una gelida giornata invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accovacciato dietro un muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di nascosto nel vicolo lungo il torrente ghiacciato. E' stato tanto tempo fa. Ma non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo conto.
Nell'estate del 2011 mi telefonò dal Pakistan il mio amico Rahim Khan. Mi chiese di andarlo a trovare. In piedi in cucina, il ricevitore incollato all'orecchio, sapevo che in linea non c'era solo Rahim Khan. Cìera anche il mio passato di peccati non espiati. Dopo la telefonata andai a fare una passeggiata intorno al lago Spreckels. Il sole scintillava sull'acqua dove dozzine di barche in miniatura navigavano sospinte da una brezza frizzante. In cielo due aquiloni rossi con lunghe code azzurre volavano sopra i mulini a vento, fianco a fianco, come occhi che osservassero dall'alto San Francisco, la mia città d'adozione. Improvvisamente sentii la voce di Hassan che mi sussurrava: Per te qualsiasi cosa. Hassan, il cacciatore di aquiloni. "

tratto da
Il cacciatore di aquiloni
di
Khaled Hosseini