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Se questo è un uomo

Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui quattro anni di leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione.
Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a "Giustizia e Libertà". Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l'esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di nascondiglio, di fuoco, di un paio di scarpe.
A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti. Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un'altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio, e mi condussero a valle come persona sospetta.

Tratto da "Se questo è un uomo"
di Primo Levi


Gita al Faro


"Si, naturalmente, se domani sarà bello" disse la signora Ramsay. "Ma dovrai alzarti all'alba" aggiunse.
Per suo figlio quelle parole furono messaggere di una gioia straordinaria, come fosse ormai deciso che la gita avrebbe avuto luogo, che il prodigio atteso con tanta ansia, per anni e anni gli sembrava fosse ora, dopo una notte di oscurità e un giorno di navigazione, a portata di mano. Poiché, già all'età di sei anni, apparteneva a quel numeroso clan che non sa isolare un sentimento dall'altro, ma non può impedire alle prospettive future, con le loro gioie e le loro pene, di distendere una nube su quanto è a portata di mano, poiché per gente di questa natura, sin dalla prima infanzia, ogni rivolgimento della ruota della sensazione ha il potere di cristallizzare e fissare il momento da cui dipendono le tenebre o lo splendore, James Ramsay, seduto sul pavimento a ritagliare le illustrazioni del catalogo dei Magazzini Militari, mentre sua madre parlava, circondò l'immagine di un frigorifero di una gioia celestiale. Era un'immagine ornata di frange, di gioia. La carriola, la tosatrice, lo stormire dei pioppi, foglie che risplendono bianche prima della pioggia, cornacchie che gracchiano, scope che sbattono, abiti che frusciano - tutto era così colorato e ben distinto nella sua mente che già aveva il suo codice privato, il suo linguaggio segreto, sebbene fosse l'incarnazione dell'assoluto rigore che non scende a compromessi, con la fronte e gli intensi occhi azzurri, inesorabilmente sinceri e puri, che si incupivano appena alla vista dell'umana fragilità, così che sua madre, mentre lo osservava muovere con precisione le forbici lungo il contorno del frigorifero, lo immaginò in toga rossa e ermellino sullo scranno del magistrato o alla guida di una grave, fondamentale impresa in una crisi pubblica.


tratto da "Gita al Faro"
di Virginia Stephen Woolf

Lo zen e la via del Karate

More about Lo Zen e la Via del Karate
Un giorno, mentre camminavo alla volta del liceo in un chiaro mattino di primavera, mentre la macchia scura della mia ombra si proiettava sul sentiero sterrato sovrastante i campi di riso, volli sforzarmi di camminare per davvero, di essere presente a ogni passo; ma invano. Questa sensazione di non essere, questo incompiuto tentativo di esistere autenticamente, mi orientarono a una ricerca dell'esistenza di sé attraverso la pratica delle arti marziali. Essi mi ricollegarono così a una tradizione propria della mia cultura e tuttavia obliterata dall'educazione impartita a me e agli altri giovani giapponesi del dopoguerra. Cominciai quindi a fare Karate non come un semplice esercizio fisico, bensì, più profondamente, per assicurare una base alla mia esistenza.
Ero molto attratto da quanto avevo sentito raccontare, da piccolo, a proposito della condizione spirituale raggiunta dagli adepti della sciabola. Vi vedevo un'immagine ideale dell'uomo, conformemente a una concezione cara alla cultura giapponese, secondo cui l'uomo può arrivare al perfezionamento di se stesso attraverso l'approfondimento di una delle arti marziali. Nel Budo (il complesso delle arti marziali giapponesi) a questa condizione (ossia modalità di esistenza nei confronti di se stesso e degli altri) si perviene attraverso la padronanza di alcune tecniche orientate al combattimento all'ultimo sangue.

Kenji Tokitsu
in
Lo Zen e la via del Karate

Lessico famigliare

Nella mia casa paterna, quand'ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: - Non fare malagrazie!
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava : - Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva : - Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
E diceva : - Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste a una table d'hote in Inghilterra, vi manderebbero subito via.
Aveva , dell'Inghilterra, la più alta stima. trovava che era, nel mondo, il più grande esempio di civiltà.
Soleva commentare, a pranzo, le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti. Uno stupido era, per lui, ''un sempio''. - M'è sembrato un bel sempio, - diceva, commentando qualche sua nuova conoscenza. Oltre ai ''sempi'' c'erano i ''negri''.
"Un negro" era, per mio padre, chi aveva modi goffi, impacciati e timidi, chi si vestiva in modo inappropriato, chi non sapeva andare in montagna, chi non sapeva le lingue straniere.
Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui "una negrigura". - Non siate dei negri! Non fate delle negrigure! - ci gridava continuamente.

Tratto da "Lessico famigliare", di Natalie Ginzburg