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Macondo

19/04/2014


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Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe
ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.
Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di
un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi
come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per
citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari
cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva
conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba
arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta
manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei savi alchimisti
della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono
vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i
legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e
perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente
cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. "Le cose
hanno vita propria," proclamava lo zingaro con aspro accento, "si tratta soltanto di risvegliargli
l'anima."

Incipit da "Cent'anni di solitudine"
- Gabriel Garcìa Màrquez -