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Everyman

... e ogni giorno, immancabilmente, dobbiamo considerarci morti.
E' questa l'essenza del Codice dei Samurai
(Yamamoto Tsunetomo)


" Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c'erano alcuni dei suoi ex colleghi pubblicitari di New York che ricordavano la sua energia e la sua originalità e che dissero alla figlia, Nancy, che era stato un piacere lavorare con lui. C'erano anche delle persone venute su in macchina da Starfish Beach, il villaggio residenziale di pensionati sulla costa del New Jersey dove si era trasferito dal Giorno del Ringraziamento del 2001: gli anziani ai quali fino a poco tempo prima aveva dato lezioni di pittura. E c'erano i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, Randy e Lonny, uomini di mezzà età molto mammoni che di conseguenza sapevano di lui poche cose encomiabili e molte sgradevoli, e che erano presenti per dovere e nulla più. C'erano il fratello maggiore, Howie, e la cognata, venuti in aereo dalla California la sera prima, e c'era una delle sue tre ex mogli, quella di mezzo, la madre di Nancy, Phoebe, una donna alta, magrissima e bianca di capelli, col braccio destro inerte penzoloni sul fianco. Quando Nancy le chiese se voleva dire qualcosa, Phoebe scosse timidamente il capo, ma poi finì per dire con voce sommessa, farfugliando un po': -E' talmente incredibile... Continuo a pensare a quando nuotava nella baia ... Tutto qui. Continuo solo a vederlo mentre nuota nella baia - ."

Incipit tratto da
Everyman
di Philip Roth

Tra killer e vampiri




Che il mondo fosse popolato da ben strana gente, l'ho sempre pensato.
Quello che non sapevo è che esiste un'ampia letteratura su quelli che vengono definiti "vampiri energetici" (Vampiri energetici,  Mario Corte) o, detto in altra maniera, "killer dell'anima".
Per chi come me fosse legato ad una terminologia più tradizionale, si tratta dei vecchi e detestabili manipolatori.

Un castello di sabbia


Quand’ero bambina, mi svegliavo quasi tutte le mattine trovando una giornata
di sole, un cielo terso e le onde verde-blu dell’Oceano Atlantico lì vicino. Questa
era Miami negli anni Cinquanta e Sessanta – prima di Disney World, prima
che la meraviglia Déco di South Beach venisse restaurata, all’epoca in cui parlando
di “invasione cubana” si intendeva poche centinaia di persone terrorizzate
a bordo di imbarcazioni di fortuna, non un movimento culturale di proporzioni
sismiche. Per lo più, Miami era il posto dove venivano a passare l’inverno i newyorkesi
infreddoliti, dove erano arrivati (separatamente) i miei genitori dalla East
Coast, dopo la II guerra mondiale, e dove si erano conosciuti il primo giorno di
college di mia madre alla University of Florida a Gainesville.
Ogni famiglia ha la sua mitologia, le storie fantastiche che ci legano gli uni
agli altri – il marito alla moglie, i genitori al figlio, i fratelli tra loro. Etnicità,
cibi preferiti, l’album dei ricordi o il baule di legno in soffitta, o quella volta
che la nonna disse quella cosa, o quando zio Fred partì per la guerra e non tornò
mai più… Per noi – per me e per i miei fratelli – la prima storia che ci venne
raccontata fu che tra i nostri genitori fu amore a prima vista.

incipit tratto da
Un castello di sabbia
di
Elyn R. Saks

Il cavaliere inesistente


Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l'esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da più di tre ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po' coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell'immobile fila di cavalieri già non avesse perso i sensi o non si fosse assopito, ma l'armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo. D'un tratto, tre squilli di tromba: le piume dei cimieri sussultarono nell'aria ferma come a uno sbuffo di vento, e tacque subito quella specie di mugghio marino che s'era sentito fin qui, ed era, si vede, un russare di guerrieri incupito dalle gole metalliche degli elmi. Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po' invecchiato, dall'ultima volta che l'avevano visto quei guerrieri.
Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giù. - E chi siete voi, paladino di Francia?
- Salomon di Bretagna, sire! - rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato; e aggiungeva qualche notizia pratica, come sarebbe : - Cinquemila cavalieri, tremilacinquecento fanti, milleottocento i servizi, cinque anni di campagna.
- Sotto coi brètoni, paladino! - diceva Carlo, e toctoc, toc toc, se ne arrivava a un altro capo di squadrone.
- Ecchisietevòi, paladino di Francia? - riattaccava.
- Ulivieri di Vienna, sire! - scandivano le labbra appena la griglia dell'elmo s'era sollevata. E lì - Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi!
- Ben fatto, bravo il viennese, - diceva Carlomagno, e agli ufficiali del seguito : - Magrolini quei cavalli, aumentategli la biada - . E andava avanti: - Ecchisietevòi, paladino di Francia? - ripeteva, sempre con la stessa cadenza : "Tàtta tatatài tàta tàtatatàta ... "

Incipit tratto da
  Il cavaliere inesistente
di Italo Calvino

Il dolore


Ognuno di noi conosce il dolore, anche se talora si presenta con maschere che appaiono lontane dalla sofferenza.
Persino la violenza è un'espressione, certo inadeguata, della sofferenza: se vuoi capire la violenza devi sapere cos'è la paura e cosa il dolore. Il dolore dentro di me, il dolore che si nasconde dentro di te e che colpisce all'improvviso oscurando la speranza.
Non mi riferisco al dolore fisico, ma a quel dolore che si lega all'esistenza, alla fatica di vivere. Un male che va oltre la fisicità e si riferisce all'Io, all'unità della nostra persona, e che può far soffrire talmente tanto da soffocare in noi il desiderio di vivere. Allora il dolore assume il volto della morte e si vuole che tutto termini, che sparisca anche quel senso di inadeguatezza che ci fa sentire dei mostri.

Ma non voglio che questa lettera sia triste o troppo malinconica, vorrei che tu provassi qualche volta a esercitarti in questa traduzione del dolore e, sotto la superficie dei conflitti, delle baruffe quotidiane, cercassi di scorgere il dolore. Chiedendoti se non sia proprio lui il protagonista di quella ennesima storia di dissapore o addirittura di odio.

Lettera a un adolescente
di Vittorino Andreoli

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Breve storia del tempo


LA NOSTRA IMMAGINE DELL'UNIVERSO

Un famoso scienziato (secondo alcuni fu Bertrand Russell) tenne una volta una conferenza pubblica su un argomento di astronomia. Egli parlò di come la Terra orbiti attorno al Sole e di come il Sole, a sua volta, compia un'ampia rivoluzione attorno al centro di un immenso aggregato di stelle noto come la nostra galassia. Al termine della conferenza, una piccola vecchia signora in fondo alla sala si alzò in piedi e disse: " Quel che lei ci ha raccontato sono tutte frottole. Il mondo, in realtà, è un disco piatto che poggia sul dorso di una gigantesca tartaruga". Lo scienziato si lasciò sfuggire un sorriso di superiorità prima di rispondere:" E su cosa poggia la tartaruga?". "Lei è molto intelligente, giovanotto, davvero molto", disse la vecchia signora. " Ma ogni tartaruga poggia su un'altra tartaruga!"
La maggior parte delle persone troverebbe piuttosto ridicola quest'immagine del nostro universo che poggia su una torre infinita di tartarughe, ma perché mai noi dovremmo pensare di saperne di più? Che cosa sappiamo sull'universo, e dove sta andando? L'universo ebbe inizio e, in tal caso, che cosa c'era prima? Qual è la natura del tempo? Il tempo avrà mai fine?

Solo in tempo (qualunque cosa sia) ce lo dirà.


incipit tratto da
" Breve storia del tempo"
di Stephen Hawking

Emily L.

" Era cominciato con la paura.
Eravamo andati a Quillebeuf, come facevamo spesso quell'estate.
Eravamo arrivati alla solita ora, nel tardo pomeriggio. Come sempre avevamo indugiato lungo il parapetto bianco che fiancheggia la banchina oltre la chiesa, l'ingresso del porto, fino alla sua foce, il sentiero abbandonato che probabilmente porta alla foresta di Brotonne.

Uno sguardo all'altra riva, al porto del petrolio, e in lontananza, alle alte scogliere di Le Havre, al cielo. Poi, un altro sguardo al traghetto rosso che incrocia, alla gente che passa, all'acqua del fiume. E sempre quel parapetto che fa da sbarramento, fragile e bianco.
Dopo, andiamo a sederci al bar all'aperto dell'hotel de la Marine, al centro della piazza, di fronte all'attracco.
I tavolini sono all'ombra dei muri dell'hotel.
L'aria è immobile, non c'è un alito di vento.

Ti guardo, tu guardi il posto. Il caldo. Le acque piatte del fiume. L'estate. E poi guardi nel vuoto. Le mani giunte sotto il mento, bianchissime, bellissime, guardi senza vedere. Assolutamente immobile, mi chiedi cosa c'é. Dico come al solito. Che non c'é niente. Che ti guardo. "

- Incipit -



Il volo della martora


IL PERO E IL MELO

Quando venne deciso di abbattere il pero e il melo, ci rimasi male. Per più giorni tentai di convincere mio padre a lasciarli stare. Ma lui, mentre aspettava il calar della luna con la scure affilata, si ostinava a ripetere che erano secchi in piedi e che non servivano più a niente.
Era vero. I due alberi che segnavano il confine del cortile erano morti da mesi. Anche se le radici cercavano ancora vita sotto la terra, sui rami non cresceva più nulla. Le radici sono come le mamme che insistono fino alla morte nell'aiutare i figli in difficoltà, ma il cocciuto senso materno non bastava a far tornare i frutti sui rami rinsecchiti, e il verde del fogliame non ombreggiava più la casa nei giorni d'estate. Solo il melo, a tarda primavera, riusciva a mettere ancora tre foglioline su un ramo avvizzito, ma era una vita in apnea, di breve durata, e le foglie cadevano dopo pochi giorni.

"Sono anche brutti da vedersi" diceva mio padre mentre già stabiliva il giorno del taglio.
Evidentemente la decadenza cancella l'affetto nelle persone, altrimenti non saprei spiegare perché si portano i vecchi a spegnersi nella tristezza degli ospizi. E perché si decide che un albero morto non è più bello. Che non è più utile. Se la vecchiaia abbruttisce il corpo umano, nelle piante è diverso: un tronco secco, con lo scheletro fermo nel vento e i rami che graffiano l'aria, è una scultura bella e inquietante, che fa riflettere. Inoltre può ancora ospitare la sosta degli uccellini in volo. Eppure nei cortili, negli orti e nei giardini, gli alberi morti vengono abbattuti. Forse perché sta scritto da qualche parte: l'albero che non dà frutto va tagliato.

Per me il pero e il melo erano due vecchi e cari compagni. Si diventa amici di qualcuno o di qualcosa prima di tutto per iniziale simpatia. Poi il sentimento cresce nutrendosi col pane della vita. Diventerà forte dopo aver scambiato gioie, dolori, ansie, paure, odio, amore, ovvero emozioni. Peccato che con i nostri simili non duri molto: solo nella natura ho trovato l'intesa perenne, poiché la natura perdona sempre e sorride ai deleteri mutamenti dell'animo umano.
Assieme ai due alberi, ora minacciati dalla logica dell'uomo, avevo trascorso quel periodo di tempo fondamentale che va dall'infanzia all'adolescenza. Per me non erano morti. Erano nudi e malridotti ma non erano morti e mi parlavano ancora con voce che esprimeva una lingua misteriosa e dolce, sconosciuta alla moltitudine.

Giacevano distesi sulla vecchia terra nutrice, ridotti in pezzi sparpagliati alla rinfusa. Per me erano stati casa, cibo, montagna, volo, aria, gioco, freschezza, fatica, gioia, dolore, affetto, pioggia, vento. Tutta la terra sta rinchiusa in un albero.
Vibravano i tamburi della sera che annunciavano la via Crucis vivente. Nel paese si perpetua da secoli il rito che rievoca la morte di Cristo: all'imbrunire un uomo viene inchiodato su due tronchi d'albero incrociati. Quel giorno fu costruita una croce con legno di pero e di melo.

Incipit e selezioni tratte da un racconto contenuto in
" Il volo della martora"
di Mauro Corona

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Le cinque persone che incontri in cielo


La fine

Questa è la storia di un uomo chiamato Eddie e comincia dalla fine, con Eddie che muore sotto il sole. Potrebbe sembrare strano iniziare una storia dal finale, ma ogni fine è anche un principio. Solo che, quando sopraggiunge, lo si ignora.

Eddie trascorse la sua ultima ora di vita, come gran parte delle altre, al Ruby Pier, un parco divertimenti prospiciente un vasto oceano grigio. Il parco aveva le solite attrazioni, un lungomare di legno consunto dalle intemperie, una ruota panoramica, le montagne russe, l'autoscontro, una bancarella di dolciumi e un locale con le macchinette automatiche, in cui si poteva sparare un getto d'acqua nella bocca di un clown. Di recente aveva acquistato una nuova grande attrazione, la Freddy's Free Fall, ed Eddie sarebbe morto proprio lì, in un incidente destinato a occupare le prime pagine dei giornali dell'intero Stato.

Incipit tratto da
Le cinque persone che incontri in cielo
di
Mitch Albom







L'amico ritrovato

Welsh Hills, di Fred Uhlman

Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più. Da allora è passato più di un quarto di secolo, più di novemila giorni tediosi e senza scopo, che l'assenza della speranza ha reso tutti ugualmente vuoti - giorni e anni, molti dei quali morti come le foglie secche su un albero inaridito.
Ricordo il giorno e l'ora in cui il mio sguardo si posò per la prima volta sul ragazzo che doveva diventare la fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione. Fu due giorni dopo il mio compleanno, alle tre di uno di quei pomeriggi grigi e bui, caratteristici dell'inverno tedesco. Ero al Karl Alexander Gymnasium di Stoccarda, il liceo più famoso del Württemberg, fondato nel 1521, l'anno in cui Lutero comparve davanti a Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Spagna.

incipit tratto da
L'amico ritrovato
di
Fred Uhlman

La luna e i falò

C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire "Ecco cos'ero prima di nascere".
Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da  Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne son fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

Cesare Pavese

La macchia umana

" Fu nell'estate del 1998 che il mio vicino Coleman Silk - che prima di andare in pensione, due anni addietro, era stato per una ventina d'anni professore di lettere classiche al vicino Athena College, dove per altri sedici anni aveva fatto il preside di facoltà - mi confidò che all'età di settantun anni aveva una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavorava al college. Due volte la settimana questa donna puliva anche l'ufficio postale, una piccola baracca rivestita di scandole grigie che pareva aver protetto una famiglia di braccianti dai venti della Dust Bowl negli anni trenta e che, piantata solinga e derelitta a metà strada tra la pompa di benzina e l'emporio, fa sventolare la bandiera americana all'incrocio delle due strade che caratterizzano il centro commerciale di questa cittadina di montagna.
Coleman l'aveva vista per la prima volta mentre lei lavava il pavimento dell'ufficio postale nel tardo pomeriggio di un giorno in cui, qualche minuto prima della chiusura, era andato a ritirare la corrispondenza: una donna esile, alta e angolosa con i capelli tra il biondo e il grigio raccolti in una coda di cavallo e quei tratti del viso severamente scolpiti, associati di solito alle devote e laboriose massaie del New England che hanno dovuto sopportare gli stenti della vita coloniale, austere donne prigioniere della moralità dominante e di questa stessa moralità rispettose. Si chiamava Faunia Farley, e qualunque fosse la sua infelicità, la teneva nascosta dietro uno di quegli inespressivi volti ossuti che, senza nulla celare, tradiscono un'immensa solitudine."

Incipit tratto da La macchia umana, di Philip Roth

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Tenera è la notte (per tutti quelli che NON lo leggeranno mai)

Sulla bella costa della riviera francese, a mezza strada tra Marsiglia e il confine italiano, sorge un albergo rosa, grande e orgoglioso. Palme deferenti ne rinfrescano la facciata rosata, e davanti a esso si stende una breve spiaggia abbagliante. Recentemente è diventato un ritrovo estivo di gente importante e alla moda; dieci anni fa, quando in aprile la clientela inglese andava verso il Nord era quasi deserto. Ora molte villette vi si raggruppano intorno; ma quando questa storia incomincia, soltanto i tetti di una dozzina di vecchie ville marcivano come ninfee in mezzo ai pini ammassati tra l'Hotel des Etrangers di Gausse e Cannes, cinque miglia più in là.
L'albergo e quel luminoso pezzetto di stuoia che era la spiaggia, erano una sola cosa. La mattina presto l'immagine lontana di Cannes, il rosa e crema delle vecchie fortificazioni, le Alpi purpuree che cingevano l'Italia, venivano gettate nell'acqua e giacevano tremolanti nei gorghi e negli anelli spinti alla superficie dalle piante marine attraverso la limpida acqua bassa. Prima delle otto un uomo scendeva sulla spiaggia in un accappatoio azzurro, e dopo molte applicazioni preliminari di acqua fredda sul corpo, e molti brontolii e molti sospiri, si agitava un minuto in mare. Quando se ne era andato, spiaggia e baia restavano in pace per un'ora. Qualche mercantile arrancava verso occidente sull'orizzonte; i fattorini dell'autobus gridavano nel cortile dell'albergo; la rugiada asciugava sui pini.


Incipit tratto da Tenera è la notte, di Francis Scott Fitzgerald

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Il grande Gatsby


Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente.
"Quando ti vien voglia di criticare qualcuno" mi disse "ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu."
Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. Perciò ho la tendenza a evitare ogni giudizio, una abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri strani mi ha anche reso vittima di non pochi scocciatori inveterati. La mente anormale è pronta a scoprire questa particolarità e ad aggrapparvisi, quando si manifesti in una persona normale, e così accadde che all'università fui ingiustamente accusato di essere un politicante perché ero al corrente dei dolori segreti di strani uomini sconosciuti. La maggior parte delle confidenze non erano provocate: spesso ho finto di aver sonno, o di esser preoccupato, o sono giunto a ostentare un'indifferenza ostile, quando capivo che da qualche segno inconfondibile che si profilava all'orizzonte una rivelazione intima; perché le rivelazioni intime dei giovani, o almeno i termini nei quali questi le esprimono, di solito sono plagiarie e deformate da evidenti omissioni. L'evitare i giudizi è fonte di speranza infinita. Temo ancora adesso che perderei qualcosa se dimenticassi che, come mio padre mi ha snobisticamente insegnato e io snobisticamente ripeto, il senso della dignità fondamentale è distribuito con parzialità alla nascita.
Ma dopo essermi così vantato della mia tolleranza, voglio ammettere che essa ha i suoi limiti.


incipit tratto da "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald

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Balla coi lupi

Dancing with wolves

Il tenente Dunbar non era stato realmente inghiottito. Ma quella fu la prima parola che gli si fissò nella mente. Quel vasto cielo azzurro senza una nube. Quell'oceano di erba che ondeggiava al vento. Null'altro, fino a dove riusciva a spingere lo sguardo. Non una pista, non una traccia di solchi lasciati da altre ruote che il carro potesse seguire. Solo lo spazio, assoluto e vuoto.
Si sentiva alla deriva. La sensazione gli faceva pulsare il cuore in un modo strano e profondo.
Seduto sul largo e piatto sedile, il tenente Dunbar lasciò che il suo corpo fluttuasse insieme con la prateria, i suoi pensieri concentrati sui battiti del suo cuore. Si sentiva eccitato. Eppure, il suo sangue non scorreva più veloce. Lo sentiva fluire normalmente per tutto il corpo e questa confusione faceva lavorare la sua mente in un modo piacevole. Le parole continuavano a volteggiare nella sua testa mentre cercava di trovare delle frasi o delle espressioni che potessero descrivere ciò che sentiva.
Era difficile definirlo con esattezza.
"Tutto ciò ha del religioso", erano state le prime parole che la voce della mente aveva formulato al terzo giorno della loro missione. E quella frase sembrava tuttora la più giusta. Ma il tenente Dunbar non era mai stato religioso, così, anche se quella frase gli sembrava appropriata, non sapeva che cosa dedurne.
Se non fosse stato così trasportato dalle emozioni, il tenente Dunbar sarebbe probabilmente arrivato alla spiegazione, ma nelle sue fantasticherie la saltò a piè pari.
Il tenente Dunbar era innamorato. Si era innamorato di questa terra splendida e selvaggia e di tutto ciò che vi era in lei. Era il genere d'amore che si sogna di provare con le altre persone: privo di ogni egoismo e di ogni dubbio, reverente e duraturo. Il suo spirito era stato gratificato e il suo cuore gli balzava in petto. Forse era per questo che l'attraente tenente di cavalleria aveva pensato alla religione.
Di sottecchi intravide Timmons chinare la testa di lato e sputare per la millesima volta nell'erba folta e alta fino alla cintola. Come spesso accadeva, lo sputo gli uscì dalla bocca in un fiotto irregolare che lo costrinse a ripulirsi con il dorso della mano.
Dunbar non disse nulla, ma dentro di sé gli incessanti sputi di Timmons gli provocarono un senso di ripugnanza.

incipit tratto da " Balla coi lupi" di Michael Black

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Il postino di Neruda


" Nel giugno 1969 due motivi, tanto fortunati quanto banali, indussero Mario Jiménez a cambiare mestiere. Primo, la sua disaffezione per le fatiche della pesca, che lo buttavano giù dal letto prima dell'alba, quasi sempre mentre sognava di audaci amori impersonati da eroine ardenti simili a quelle che vedeva sullo schermo del cinematografo di San Antonio. Questo talento, unito alla conseguente simpatia per i raffreddori, reali o finti, mediante i quali si sottraeva un giorno sì e uno no alla preparazione dell'attrezzatura della barca di suo padre, gli permetteva di crogiolarsi sotto le nutrite coltri cilene, perfezionando i suoi idilli onirici, finché il pescatore José Jiménez tornava dall'alto mare inzuppato e affamato, ed egli mitigava il suo complesso di colpa imbandendo una colazione di pane croccante, chiassose insalate di pomodoro con cipolla, più prezzemolo e coriandolo, e una drammatica aspirina che inghiottiva quando il sarcasmo del genitore gli penetrava fino alle ossa. "

Il postino di Neruda
(Antonio Skàrmeta)

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Il poco che ho da segnalarvi lo aggiungo di seguito.
Le consuete citabila

;-)




Il colonnello Chabert (per chi NON lo leggerà mai)


Mi ero illuso che per comprendere il pensiero e la fisionomia di Honoré de Balzac (1799-1850) mi sarebbe bastato leggere un paio dei suoi racconti e poco più. Vero è che non ho l'ambizione e la professionalità del critico letterario: sono un semplice lettore e, dunque, certe velleità dovrebbero risultarmi estranee...
Immagino però che sia capitato anche a voi qualche volta di leggere e voler capire.
E' un desiderio che sembra quasi un voler gettare lo sguardo oltre le pagine, indagare oltre le parole.
Purtroppo non è un desiderio sempre risolvibile: il più delle volte bisognerà stare ai fatti, contentarsi delle parole e delle loro fantastiche evocazioni.
A meno che non vi capiti qualcosa del genere...




Il colonnello Chabert


Uno studio di avvocato

" Ancora! Ancora la nostra vecchia palandrana!"
Questa esclamazione era sfuggita a un giovane scrivano, di quelli che negli studi di avvocato vengono abitualmente chiamati "galoppini", mentre addentava un pezzo di pane in un accesso di buon appetito: ne prese poi una mollica per farne una sorta di pallottola che lanciò allegramente dalla finestra a cui era appoggiato. La pallina di pane ben diretta, rimbalzò in aria dopo aver colpito il cappello di uno sconosciuto che stava attraversando il cortile di una casa di rue Vivienne, proprio dove abitava l'avvocato Derville.
"Su, andiamo,Simonnin, lasciate in pace il prossimo se non volete che vi metta alla porta. Un cliente, anche quando è povero, è pur sempre un essere umano, diavolo!", lo redarguì lo scrivano capo interrompendo il conteggio di una nota-spese.
Il galoppino è in generale un ragazzotto di tredici o quattordici anni, proprio come Simonnin, che, negli studi legali è agli ordini diretti dello scrivano capo delle cui commissioni personali e delle cui letterine amorose deve occuparsi anche quando va a recapitare le notifiche degli uscieri o i ricorsi ai tribunali. Se per carattere ricorda molto i monelli parigini, per le mansioni che deve svolgere fa parte del mondo del Cavillo. "

- Il colonnello Chabert -
(Honoré de Balzac)

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Citabilia da "N.", di Ernesto Ferrero


Immaginate d'esser voi scelti quali biografi ufficiali di un personaggio imponente, del tutto fuori dimensione rispetto al piano della Storia.
Immaginate anche che sia proprio lui ad indicarvi per quel ruolo.
Visto che ci siete, immaginate anche di avere quel genere di problema con il personaggio suddetto che vi induce a farvi fabbricare, da un abile artigiano, una specie di astuta custodia in forma di libro, nella quale, immaginate, andrete a collocare una pistola con un colpo in canna.

Vi sarà allora facile immaginare che, essendo anche l'archivista bibliotecario del suddetto personaggio , un giorno potrebbe venirvi in mente di portare quella specie di cavallo di troia dentro la residenza elbana, sorvegliatissima, dell' Imperatore ( è lui "il personaggio") pensando di poter puntare la pistola verso la nuca di quello che per voi è il "Gran Beccaio", l'artefice delle mille stragi.

Immaginando immaginando ... il libro si legge in fretta.
Ci metto più tempo a compilare la mia consueta scheda di lettura che a leggerlo, a dire il vero...
ma ne vale davvero la pena. Il libro è scritto con una tale accortezza verso la parola, il singolo vocabolo, la sfumatura storica.... che lo rileggerei.
Per voi, nel caso foste interessati, una selezione delle mie note di lettura ...

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N.

Stava seduto al tavolo dello studiolo, di traverso. Sprimacciava con irritazione le carte che il generale Drouot gli aveva passato, il budget del 1815, come se tra quelle si fosse nascosto uno scarabeo o un cerambice, entrato per caso dalla finestra in cerca di tepore. S'è lamentato tra i denti che il costo delle divise era eccessivo. Controllava che il totale delle singole voci fosse giusto, perchè non si fidava nemmeno di Drouot. Non si fidava di nessuno. "Portate le candele", ha detto seccamente. Fuori della Villa dei Mulini la tela del cielo, azzurro chiara, s'era mutata in grigio cenere nel giro di pochi minuti. Il signor Rathéry, il segretario particolare, era passato nella saletta degli ufficiali della guardia a cercare il generale Cambronne. Tra mezz'ora sarebbe venuto il mamelucco Alì ad annunciare la cena.
Sono andato verso il ripiano sotto la finestra della biblioteca, dove avevo appena appoggiato le novità librarie giunte da Livorno, e tra di esse il finto volume sull'estrazione del ferro che in realtà era una scatola. Ho sollevato la copertina come se fosse l'anta di un armadietto. Ho cercato di estrarre la pistola che vi era nascosta con la delicatezza che mi consentiva il tremito delle mani, e ho alzato il cane. Ho stretto la pistola al petto, come fosse una reliquia, e ho spalancato la porta che immette nello studiolo. Allora ho steso il braccio per tutta la sua lunghezza, mirando alla nuca.
Il bastardino che gli stava accucciato accanto s'è rizzato sulle zampte anteriori, ringhiando. L'uomo non si è girato subito, quasi non credesse alle sue orecchie. Poi, senza alzarsi, ha ruotato lentissimamente il tronco, con una gravità un po' teatrale, da antico romano, come forse avrà visto fare dal suo amico Talma, il famoso attore parigino.
Nei suoi occhi non c'era paura.


N.
di Ernesto Ferrero