Un giorno, mentre camminavo alla volta del liceo in un chiaro mattino di primavera, mentre la macchia scura della mia ombra si proiettava sul sentiero sterrato sovrastante i campi di riso, volli sforzarmi di camminare per davvero, di essere presente a ogni passo; ma invano. Questa sensazione di non essere, questo incompiuto tentativo di esistere autenticamente, mi orientarono a una ricerca dell'esistenza di sé attraverso la pratica delle arti marziali. Essi mi ricollegarono così a una tradizione propria della mia cultura e tuttavia obliterata dall'educazione impartita a me e agli altri giovani giapponesi del dopoguerra. Cominciai quindi a fare Karate non come un semplice esercizio fisico, bensì, più profondamente, per assicurare una base alla mia esistenza.
Ero molto attratto da quanto avevo sentito raccontare, da piccolo, a proposito della condizione spirituale raggiunta dagli adepti della sciabola. Vi vedevo un'immagine ideale dell'uomo, conformemente a una concezione cara alla cultura giapponese, secondo cui l'uomo può arrivare al perfezionamento di se stesso attraverso l'approfondimento di una delle arti marziali. Nel Budo (il complesso delle arti marziali giapponesi) a questa condizione (ossia modalità di esistenza nei confronti di se stesso e degli altri) si perviene attraverso la padronanza di alcune tecniche orientate al combattimento all'ultimo sangue.
Kenji Tokitsu
in
Lo Zen e la via del Karate